Il termine “intervento minimo” sta emergendo sempre più nel mondo del vino, andando a descrivere e indicare uno stile enologico che privilegia l’espressione naturale del carattere dell’uva e del terroir, anziché manipolare il vino per adattarsi a standard predefiniti di gusto.
Questo approccio riflette un cambiamento generazionale nel settore, con giovani viticoltori che sfidano le tradizioni e i preconcetti dei loro predecessori. Un esempio di questa tendenza è Brianne Day, proprietaria di Day Wines nella Willamette Valley dell’Oregon: “Sono cresciuta in una famiglia molto religiosa, ho poi scoperto la passione per il vino durante un soggiorno in Italia e ho deciso di fondare la mia etichetta nel 2012 con l’obiettivo di produrre vini a basso intervento accessibili. La mia filosofia si basa sull’agricoltura biologica, sulla vinificazione minimalista e sulla fermentazione naturale”.
Contrariamente alla pratica comune negli Stati Uniti, che spesso coinvolge l’uso di processi standardizzati per garantire risultati prevedibili, l’intraprendente produttrice in questione adotta un approccio più alla mano, per così dire, intervenendo solo quando necessario durante il processo di vinificazione. Preferisce, infatti, vini leggeri e bilanciati, con un focus sulle varietà meno tradizionali. Un altro esempio che voga in questa direzione è rappresentato da Phil Plummer della Montezuma Winery nei Finger Lakes di New York, il quale abbraccia al 100% la filosofia del basso intervento. Plummer, che ha iniziato a fare vino clandestinamente durante i suoi giorni di college, sperimenta con varietà non convenzionali per creare vini unici che sfidano le aspettative. Questi viticoltori rappresentano una nuova generazione che cerca di rompere con le tradizioni del passato e abbracciare un approccio più naturale e autentico alla produzione vinicola.